Fu il rumore della pioggia a destarla prima ancora che
suonasse la sveglia. Elga si stropicciò gli occhi con indolenza. Le tempie le
pulsavano, si sentiva stanca come se non avesse riposato affatto.
Il cielo plumbeo e quell’odioso ticchettio sui vetri non promettevano nulla di buono, non a lei che detestava le giornate piovose.
Barcollando scese le scale e si diresse in cucina. Un caffè caldo e un’aspirina l’avrebbero aiutata a carburare. Non realizzò subito di non essere sola. In un primo momento, la penombra in cui era immersa la stanza fece sì che l’oscura sagoma si confondesse nel gioco d’ombre alimentato dalle bambole, assiepate ovunque. Mentre cercava il tasto dell’interruttore, si udì un fragore potentissimo e un lampo illuminò l’ambiente. Fu allora che la vide.
Una bambina sedeva alla sua tavola ed era intenta a mangiare avidamente la sua torta.
Non si scompose vedendola entrare, si limitò a sollevare il viso, era tutto sporco di cioccolata. Sorrise con la bocca piena fissandola con un paio di occhi blu.
Elga rimase come impietrita, batté le palpebre confusa quasi che il gesto potesse cancellare quella visione onirica. Perché solo di questo poteva trattarsi… accese la luce, aprì e chiuse gli occhi ripetutamente ma la bimba restò lì. Poteva avere dieci anni, tanti quanti ne contavano le candeline. Non fosse stato per i capelli lisci e neri, per le iridi di un altro colore, per la magrezza delle braccia…
Scosse la testa con violenza nel tentativo di scacciare quel pensiero folle.
«Come hai fatto a entrare?» chiese invece dando voce alla supposizione più logica.
Lei le rivolse un’occhiata interrogativa.
«Chi sei e cosa ci fai in casa mia?» rilanciò la donna balbettando.
L’ostinato silenzio dell’altra la inquietò e la indispettì allo stesso tempo. «Non mi hai sentita? Perché non mi rispondi? Il gatto ti ha mangiato la lin…»
«Mammina…» la risposta fluì simile a un’implorazione dalle sue labbra mentre gli occhi le si gonfiavano di lacrime.
«No.» Elga fu scossa da un tremito. «No» ripeté scuotendo il capo sempre più forte.
La piccola si alzò dalla sedia visibilmente turbata. «Mamma stai bene?» chiese andandole incontro.
Istintivamente lei si ritrasse, si appiattì contro la parete intenzionata a evitare qualsiasi contatto. «Non chiamarmi mamma» intimò. Non aveva idea di cosa diavolo stesse accadendo ma allo stupore iniziale si stava sostituendo un senso di rabbia misto a paura strisciante. «Io non sono tua madre.»
A quell’affermazione la bambina scoppiò in singhiozzi. «Perché fai così? Mammina…» incurante di qualsiasi avvertimento si lanciò sulla donna, la strinse in un abbraccio striandole il pigiama di scuro.
Elga saltò come colpita da una scossa elettrica. Chiunque fosse quella sconosciuta, era una persona in carne e ossa. Percepì con chiarezza la consistenza del suo corpo e anche la forza della sua stretta, inimmaginabile vista l’esilità del fisico. Si allontanò decisa a mantenere le distanze. «Non toccarmi» l’ammonì. Trasse un lungo respiro, poi aggiunse: «Adesso per piacere dimmi chi sei e cosa ci fai qui.»
«Rea. Sono tua figlia, non mi riconosci?» il suo tono carico di sconcerto e preoccupazione.
«Rea?» la donna ripeté quel nome con lentezza, come si trattasse di una parola aliena. «Ok, se è uno scherzo sappi che non mi piace per niente. Mia figlia è morta e io non conosco nessuna Rea.»
«Perché dici così? Mi stai facendo paura mamma!» mugolò la piccola.
La sua angoscia era tanto credibile che avrebbe meritato un Oscar se fosse stata frutto di una recita. Eppure non poteva essere altrimenti. Evidentemente qualcuno aveva orchestrato quella messinscena per farsi beffe di lei. Chi e a quale scopo Elga non avrebbe saputo dirlo, ma non riusciva a immaginare altre spiegazioni possibili per quel che stava accadendo e, man mano che quella convinzione si faceva strada nella sua testa, la collera cresceva.
«Te lo chiedo per l’ultima volta. Chi sei e che ci fai qui?»
«Rea» singhiozzò l’altra.
«Risposta sbagliata. Chi ti manda non ti ha istruita bene. Mia figlia si chiamava Martina.»
«Sono io tua figlia…»
«Adesso basta!» Elga la afferrò per un polso e la trascinò con sé verso la mensola del camino. Era piena di bambole come qualsiasi ripiano in quella casa, ma tra l’una e l’altra spiccavano un paio di portafoto in legno. Ne agguantò uno a caso e lo porse all’intrusa.
«Lei è Martina. È l’unica figlia che abbia mai avuto e non ti somiglia per niente.»
Prima di prenderlo la bambina si pulì le mani sull’abitino bianco che indossava, osservò la fotografia per qualche minuto senza fiatare, poi la restituì voltandola in modo che anche l’altra la vedesse.
L’immagine la colpì con la violenza di uno schiaffo. Martina era seduta nel suo laboratorio, sembrava una bambola tra le bambole, e sorrideva proprio come nella vecchia foto su cui Elga aveva pianto un milione di volte, solo che… non era lei. La persona immortalata dallo scatto era identica all’estranea che aveva di fronte. […]
Il cielo plumbeo e quell’odioso ticchettio sui vetri non promettevano nulla di buono, non a lei che detestava le giornate piovose.
Barcollando scese le scale e si diresse in cucina. Un caffè caldo e un’aspirina l’avrebbero aiutata a carburare. Non realizzò subito di non essere sola. In un primo momento, la penombra in cui era immersa la stanza fece sì che l’oscura sagoma si confondesse nel gioco d’ombre alimentato dalle bambole, assiepate ovunque. Mentre cercava il tasto dell’interruttore, si udì un fragore potentissimo e un lampo illuminò l’ambiente. Fu allora che la vide.
Una bambina sedeva alla sua tavola ed era intenta a mangiare avidamente la sua torta.
Non si scompose vedendola entrare, si limitò a sollevare il viso, era tutto sporco di cioccolata. Sorrise con la bocca piena fissandola con un paio di occhi blu.
Elga rimase come impietrita, batté le palpebre confusa quasi che il gesto potesse cancellare quella visione onirica. Perché solo di questo poteva trattarsi… accese la luce, aprì e chiuse gli occhi ripetutamente ma la bimba restò lì. Poteva avere dieci anni, tanti quanti ne contavano le candeline. Non fosse stato per i capelli lisci e neri, per le iridi di un altro colore, per la magrezza delle braccia…
Scosse la testa con violenza nel tentativo di scacciare quel pensiero folle.
«Come hai fatto a entrare?» chiese invece dando voce alla supposizione più logica.
Lei le rivolse un’occhiata interrogativa.
«Chi sei e cosa ci fai in casa mia?» rilanciò la donna balbettando.
L’ostinato silenzio dell’altra la inquietò e la indispettì allo stesso tempo. «Non mi hai sentita? Perché non mi rispondi? Il gatto ti ha mangiato la lin…»
«Mammina…» la risposta fluì simile a un’implorazione dalle sue labbra mentre gli occhi le si gonfiavano di lacrime.
«No.» Elga fu scossa da un tremito. «No» ripeté scuotendo il capo sempre più forte.
La piccola si alzò dalla sedia visibilmente turbata. «Mamma stai bene?» chiese andandole incontro.
Istintivamente lei si ritrasse, si appiattì contro la parete intenzionata a evitare qualsiasi contatto. «Non chiamarmi mamma» intimò. Non aveva idea di cosa diavolo stesse accadendo ma allo stupore iniziale si stava sostituendo un senso di rabbia misto a paura strisciante. «Io non sono tua madre.»
A quell’affermazione la bambina scoppiò in singhiozzi. «Perché fai così? Mammina…» incurante di qualsiasi avvertimento si lanciò sulla donna, la strinse in un abbraccio striandole il pigiama di scuro.
Elga saltò come colpita da una scossa elettrica. Chiunque fosse quella sconosciuta, era una persona in carne e ossa. Percepì con chiarezza la consistenza del suo corpo e anche la forza della sua stretta, inimmaginabile vista l’esilità del fisico. Si allontanò decisa a mantenere le distanze. «Non toccarmi» l’ammonì. Trasse un lungo respiro, poi aggiunse: «Adesso per piacere dimmi chi sei e cosa ci fai qui.»
«Rea. Sono tua figlia, non mi riconosci?» il suo tono carico di sconcerto e preoccupazione.
«Rea?» la donna ripeté quel nome con lentezza, come si trattasse di una parola aliena. «Ok, se è uno scherzo sappi che non mi piace per niente. Mia figlia è morta e io non conosco nessuna Rea.»
«Perché dici così? Mi stai facendo paura mamma!» mugolò la piccola.
La sua angoscia era tanto credibile che avrebbe meritato un Oscar se fosse stata frutto di una recita. Eppure non poteva essere altrimenti. Evidentemente qualcuno aveva orchestrato quella messinscena per farsi beffe di lei. Chi e a quale scopo Elga non avrebbe saputo dirlo, ma non riusciva a immaginare altre spiegazioni possibili per quel che stava accadendo e, man mano che quella convinzione si faceva strada nella sua testa, la collera cresceva.
«Te lo chiedo per l’ultima volta. Chi sei e che ci fai qui?»
«Rea» singhiozzò l’altra.
«Risposta sbagliata. Chi ti manda non ti ha istruita bene. Mia figlia si chiamava Martina.»
«Sono io tua figlia…»
«Adesso basta!» Elga la afferrò per un polso e la trascinò con sé verso la mensola del camino. Era piena di bambole come qualsiasi ripiano in quella casa, ma tra l’una e l’altra spiccavano un paio di portafoto in legno. Ne agguantò uno a caso e lo porse all’intrusa.
«Lei è Martina. È l’unica figlia che abbia mai avuto e non ti somiglia per niente.»
Prima di prenderlo la bambina si pulì le mani sull’abitino bianco che indossava, osservò la fotografia per qualche minuto senza fiatare, poi la restituì voltandola in modo che anche l’altra la vedesse.
L’immagine la colpì con la violenza di uno schiaffo. Martina era seduta nel suo laboratorio, sembrava una bambola tra le bambole, e sorrideva proprio come nella vecchia foto su cui Elga aveva pianto un milione di volte, solo che… non era lei. La persona immortalata dallo scatto era identica all’estranea che aveva di fronte. […]
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